Giovedì 27 dicembre, verso le 19.00
Come sempre, quando si avvicina la fine dell’anno, il mio umore è mutevole, definirmi lunatica è un eufemismo, passo dalla nostalgia all’entusiamo, dallo sconforto alla gioia, dalla noia all’esaltazione, il tutto più velocemente di quanto ci metta Mimì ad afferrare l’ennesimo calzino rubato allo stenditoio. Mimì è una gatta, la mia gatta, anche se in fondo in fondo temo abbia qualche discendenza canina. A volte sembra abbaiare, e poi è un cane da guardia, anzi una gatta da guardia. E poi pesa quanto un cinghiale. Vabbè. Mimì è quello che è, di fatto io stamattina mi crogiolo nei miei pensieri, e ripenso alla discussione di ieri sera, o meglio all’accesa conversazione tra artistoidi ben pensanti, il mio commento buttato lì a caldo, che di fatto è stata una chiusa memorabile, la faccia divertita di Alex che mi pesta sotto al tavolo e mi sussura “a questo punto sarebbe meglio darsela a gambe”. Il fatto è che io sono terrena. Dannatamente terrena, con scarsissima propensione al vaneggiamento e ai discorsi pseudo bohemienne, delle anime alte. Ultimamente, in modo particolare, m’infastidiscono tutti quelli che si autodefiniscono artisti, che sono convinti di avere una sensibilità al di fuori del comune, che sistematicamente inciampano nelle più ovvie banalità, convinti peraltro di elargire perle di sapienza a tutti gli altri comuni mortali. Il mio fastidio è la prova tangibile del fatto che sto invecchiando. Prima sorridevo leggera, oggi m’incazzo. Ieri la discussione verteva sull’eterna dicotomia del binomio amore-libertà, e una tizia, che se definisco sfigata risulto troppo snob (ma diavolo Dea, questo è il mio libro, io sono la protagonista e dico quello che mi pare e piace!), le faccio pure un complimento.
Di fatto ero già indispettita per come diavolo s’era vestita… Cristo Santo, cena del 26 dicembre: vestitino rosso e décolleté con l’aggravante del plateau, e pochette glitterata, il capello spettinato e quell’aria de “io non seguo la moda perché sono troppo presa a dipingere e creare”. Avanguardia pura.
“Io non sono di nessuno!” esclama sorseggiando un Barolo d’annata di cui probabilmente non conosceva neanche l’esistenza fino ad un secondo prima.
“Siamo tutti esseri liberi, l’amore inteso come coppia è una trappola, l’amore puro è cosmico, solo l’arte ci rende parte del tutto, ci avvicina all’infinito”.
E io fin qui, ancora indecisa se continuare a sorridere amenamente, oppure andare a vomitare, se non che l’incauta, chissà credendo forse di essere spiritosa, mi rivolge un sorrisino sarcastico e aggiunge: “Beh ma qui abbiamo un’opinionista d’eccezione, cosa ne pensa in merito la nostra super esperta di moda… cosa ne pensi Nina?”
Di lì poi è tutta storia.
Il fatto è che certe persone proprio non lo sanno. Né lo sapranno mai. Non sapranno mai che vuol dire appartenere. Sentirsi così parte di qualcuno, da perdere completamente i confini e la percezione di ogni possibile distanza. Sentirsi beatamente “cosa” dell’altro, affidargli se stesso sapendosi al sicuro. Ma quale libertà. Certe cose sono pericolose, lo so bene, come tutto ciò che è estremo.
Il fatto è che fa ancora male.
Mi accendo una sigaretta, con questi e innumerevoli pensieri nella testa, pensando che in fondo, manca ancora una manciata di giorni al Capodanno e ai buoni propositi, quindi sì, inspiro lentamente fumo, nicotina e compagnia bella, scrollandomi via da dosso, briciole di panettone e ultimi sensi di colpa.
In questo post indosso una blusa e una gonna Ombelico, décolleté Gabriele Riccardi
Photo Matteo Anatrella